Attraverso questa intervista con Amy Rankine, forager e gastronoma scozzese ci addentriamo nella conoscenza di una pratica appartenente alla vita contadina che sta diventando molto nota: Il Foraging.
Come prima cosa le chiedo come sia iniziato il suo percorso: «Ho avuto la fortuna di crescere in un delizioso villaggio rurale con un grande bosco a pochi minuti a piedi da casa. Trascorrevamo molto tempo nella natura e mia madre mi ha insegnato quello che sapeva su piante e alberi, mentre con mio padre ho imparato a conoscere le piante da giardino e le tecniche di coltivazione. Questa è la base di tutto quello che so, ma solamente da grande, quando sono tornata in Scozia da Manchester, ho iniziato a mettere seriamente in pratica le mie conoscenze. Spesso andavo al pub locale la sera, ed è stato qui che io e un amico abbiamo incontrato un appassionato cercatore di funghi, che ci ha insegnato molto sulle varietà locali e ha acceso il mio interesse per il foraging. Come per molte cose nella vita, il pub è la risposta». - Ride, ridiamo.
Ma di cosa si tratta veramente? Se ne sente parlare sempre più spesso, come di una moda che dai paesi del nord è arrivata fino alle nostre tavole, tra chef raccoglitori come René Redzepi del “Noma” di Copenhagen e tendenze su Instagram, ma in realtà:
Il foraging non è altro che l’evoluzione di una pratica
Comune ai tempi dei nostri antenati, chiamata alimurgia (dal latino alimenta urgentia, sostentamento in caso di urgenza). Cioè l’arte di sapersi nutrire di erbe e cibo selvatico, alimenti che crescono spontaneamente in natura e vengono raccolti senza subire trasformazioni. Di alimurgia si parlava già nel 1700, e fino a buona parte del 1800 era molto comune tra chi non poteva permettersi verdure e cereali coltivati, come il grano, che erano spesso riservati ai ceti più abbienti. Un cibo povero quindi, riscoperto recentemente perché si è capito come le piante selvatiche, i fiori, le erbe e bacche in particolare, siano ricche di fitocomplessi vegetali benefici.
Come spiega Amy: «L'anno scorso ho partecipato a un progetto del Regno Unito che riguardava gli impatti di una dieta a base di cibi selvatici sulla salute. Il cibo selvatico spesso ha una maggiore densità nutritiva, per quanto riguarda i micronutrienti, rispetto al cibo coltivato. Inoltre consumare una gamma più ampia di piante è benefico per il microbiota intestinale, in quanto aumenta in modo significativo il numero di specie batteriche presenti». Il foraging è alla portata di tutti, bisogna solo cominciare per gradi ed essere consapevoli delle varietà di piante selvatiche che crescono nel territorio che abbiamo intenzione di “raccogliere”.
«Ci sono barriere culturali che vanno superate», continua Amy, «e vari miti o leggende popolari che spesso scoraggiano le persone dal praticarlo. Non serve una particolare attrezzatura, ma è necessario conoscere ciò che si può mangiare e ciò che bisogna assolutamente evitare, oltre a sapere dove è legale raccoglierle. Il mio consiglio è quello di iniziare con piante facilmente identificabili e familiari. La maggior parte delle persone riconosce un dente di leone, e tutte le parti della pianta, non solo sono commestibili, ma anche deliziose. Questo lo rende sicuramente un ottimo punto di partenza. Ci sono anche corsi, o manuali specifici che insegnano a identificare le piante, ma la cosa più importante è iniziare con cautela, senza affidarsi a occhi chiusi alle “app” per cellulari che possono essere utili, ma possono anche sbagliare. Il mio motto è: "se non sai cosa sia, non metterlo in bocca"».
Poi prosegue: «Il foraging è davvero un toccasana per la salute mentale. Necessita di concentrazione e questo permette di connettersi con l'ambiente, con l'ecosistema vivente, diventandone parte. Si è così più in sintonia con le stagioni e si riesce a capire meglio la struttura degli habitat locali».
Si è così spinti a rallentare i ritmi della vita e del consumo
Ad essere più consapevoli di quello che si mangia e ad avere un rapporto più sostenibile con il cibo, un argomento verso cui Amy ha sempre nutrito interesse, come testimonia la sua laurea in Scienze dell’Alimentazione. In passato non metteva in discussione i metodi di produzione industriali, ma questo approccio è cambiato radicalmente nel tempo, in parte grazie al coinvolgimento con il ramo scozzese di Slow Food ed in parte per il suo master in Gastronomia, ma soprattutto grazie al “foraging”:
«Più imparo, più mi rendo conto di quanto ci siamo allontanati da ciò che mangiamo. Penso che la cosa peggiore che abbia mai visto sia stata un'arancia, intera ma sbucciata, in un contenitore di plastica. Il cibo selvatico è l'antitesi di questo. Non solo impari a conoscere la pianta durante il suo ciclo di vita, ma capisci anche come una pianta può essere trasformata in cibo, perché sei tu stesso a svolgere questo lavoro. Alcuni cibi possono essere commestibili crudi, ma altri potrebbero richiedere una cottura specifica per essere consumati senza rischi. Penso che questo spaventi molte persone, perché siamo abituati ad avere tutto pronto».