“Sono una diva, sì, lo sono sempre stata”. Ritu Dalmia, eccellenza della cucina indiana con 15 ristoranti gestiti tra Italia e India, ha un modo di porsi e presentarsi irriverente e provocatorio. Segno tangibile di una mente brillante e di un innato carisma che ne hanno sempre fatto, ai miei occhi, una predestinata. In questa intervista, faticosamente strappata ai suoi mille impegni e al suo vorticoso ritmo di vita, lei ci parla della “cucina” non solamente seguendo il punto di vista “tecnico”, ma svolgendo dinanzi a noi un percorso filosofico e spirituale, molto indiano, che permette di farci cogliere quei fili sottili e apparentemente misteriosi, che uniscono Italia e India.
Le spezie e il loro uso. Qual è la linea di distinzione tra l'arricchimento del piatto e la sua trasformazione?
Non è facile.
Mescolare le spezie nel modo giusto
È complicato anche per noi. Sai, io dico sempre che con il cibo indiano ogni giorno imparo qualcosa di nuovo. Ti sembra tutto molto semplice, ma non è così; c’è una complessità di fondo che poi ruota proprio attorno alle spezie, nella loro componente essenziale, lontana dal mito. Quello che fa pensare che le spezie “sono” la cucina indiana. Se la tua bocca “va a fuoco” è cibo indiano. Penso che sia, ancora una volta, sbagliato perché l’uso delle spezie deve essere molto “delicato” e non invadere gli ingredienti; ho impiegato molto tempo per fare mio questo semplice e difficile insegnamento.
Il rifiuto dello stereotipo, direi
Esattamente. Devi pensare che le spezie sono alla base anche della cucina occidentale. Lo zucchero è una spezia. L'aglio è una spezia. L’impiego delle spezie va calibrato con la tecnica in oriente come in occidente.
Prendi ad esempio il cumino. Se lo friggi, lo rosoli, allora rilascia gli aromi corretti. Ma devi metterne la quantità giusta. Di solito si dice “less is more”, ed è una definizione corretta soprattutto con le spezie. Bisogna sapere qual è la giusta quantità e come si integra nel piatto. Il cumino ha un sapore molto dolce ma al momento in cui lo cuoci, il piatto assume un gusto molto aromatizzato.
Il cardamomo aggiunge l'aroma ma non puoi aggiungerne 500 pezzi. Al massimo uno o due. Le spezie, insomma, vanno “rilasciate” nel piatto, in modo da permetterti, quando chiudi gli occhi e lo assaggi, di sentire quel qualcosa di diverso e indefinibile.
Un'altra cosa molto importante, specialmente per il tuo stile di cucina, è il termine fusione.
Oh no! Oh no! Assolutamente no! La fusione è confusione. Io non violento le ricette. Ciò che faccio è al massimo mescolare i cibi regionali. Per capire, abbinare un curry dal Kerala (stato meridionale del Subcontinente indiano, nda) accompagnato da un pane dal nord dell’India. Non sto cambiando la ricetta del piatto del Kerala né sto cambiando il piatto dal nord; semplicemente sto solo combinando le regioni assieme. Quindi sì, è qualcosa con cui mi piace giocare, ma non lo chiamerei fusione. Un piatto di gnocchi alla romana, ad esempio, lo puoi mangiare con la parmigiana, con del gorgonzola, o accompagnato da una caponata, per esempio. Quindi abbini un sapore romano ad uno siciliano. Non sto modificando quella che è la tipicità regionale del piatto; sto solo combinando i sapori assieme.
La mia cucina non è fusione
Vuole essere semmai coraggiosa, e divertente.
Dal tuo punto di vista, la cucina è più applicazione o talento?
No, è una combinazione di entrambi. Proprio 3 ore fa ho avuto una telefonata con un famoso chef del Regno Unito. Dobbiamo fare una cena a quattro mani a giugno. Mentre stavamo discutendo, l'organizzatore ci ha suggerito di mandare le sue ricette a me e di prepararle e lo stesso io a lui. Beh, abbiamo iniziato a ridere. Perché tu dai una ricetta a cinque persone, la stessa ricetta, gli stessi ingredienti, e avrai cinque risultati diversi. Quindi non è soltanto tecnica, non è soltanto applicazione; ci deve essere il talento dietro a tutto, ma da solo non basta.
Quando dico che questi cinque piatti saranno “diversi”, non vuol dire peggiori dell’originale. Tutti avranno un piccolo tocco di chi lo ha realizzato, utilizzando le quantità in un modo diverso, le cotture, l’impiattamento e questo creerà cinque mondi diversi, questo vale per il cibo, come per la vita;
Il talento ti fa aggiungere il “tuo” tocco
non quello di un altro.
Ho una curiosità: quanto tempo spendi per creare un nuovo piatto?
Ormai il mio tempo speso in cucina è quello che dedico ai nuovi piatti per il ristorante. Quindi se sono davvero sincera con te, direi 15-20 giorni in un anno, ma non di più. Penso che il mio lavoro oggi, più che cucinare, sia diventare un allenatore, per la nuova generazione di chef, per le persone che lavorano con noi. Non dimenticare che sono anche diventata vecchia e tra tutti i ristoranti che abbiamo non posso essere in ogni ristorante a cucinare ogni giorno.
Penso che la sfida sia riuscire a mantenere lo stessa standard. E questo è un mistero, perché hai molti chef che hanno ovviamente tocchi “diversi”
Ci riesco perché sono una maga! È molto semplice.
In realtà faccio costanti controlli; inseguo la qualità e questo rende la mia vita complicata. Ciò che mi aiuta è che il 95% dei miei clienti sono clienti regolari. Quindi, se faccio un errore, o se le mie brigate fanno un errore, anche piccolo, lo vengo a sapere in cinque minuti.
Quindi c'è un continuo audit, assicurandosi che la catena di vendita sia la stessa ovunque. Gli ingredienti devono essere gli stessi ovunque, perché se hai anche i migliori chef, ma gli ingredienti non sono giusti, non funziona. È una parte molto difficile del nostro lavoro, ed è anche costosa.
Pensi che la cucina sia, come lo sport, forse uno dei pochi settori meritocratici?
È totalmente meritocratico. Senti che non c'è altro modo di farlo; in questo non vedo affinità con lo sport, ma con l’arte.
È davvero una questione di capacità. Non conta da quale famiglia provieni, non è una questione di dinastia, non è neanche una questione di genere. Il talento può esserci in un uomo o una donna. Negli uomini è diverso la modalità dil lavoro, i tempi del lavoro, la fisicità del lavoro. Oggi sono moltissimi i nuovi ristoranti in città grandi, ma anche in piccole, che “ruotano” attorno a donne. È quasi come un'esplosione e che questo stia accadendo anche in India mi rende davvero felice.
L'ego, è un nemico o un alleato? Perché ricordo sempre il tuo “sentirti” diva.
Sì, sono Diva
Quando ero giovane, l'ego era il mio migliore amico. Invecchiando questa “diva” è diventata molto più calma e sottile, ma credo che all’inizio della mia carriera l’ego mi ha dato la forza, mi ha dato l'appetito, mi ha dato l'ambizione.
Poi col tempo si realizza che, in realtà, l'ego non è più un alleato, e lasciandolo, la vita diventa anche più facile. Non senti che devi competere, non senti che devi essere il numero uno, non senti che, raggiunto il passo 99, devi arrivare a 999. E che quando sei al 999, poi vuoi il 9999. Quindi, sono orgogliosa di ciò che faccio. Tuttavia, come ho detto, oggi direi che è l'umiltà il mio migliore amico, non l'ego.
Quindi, nella mia vita, ho avuto l'ego come migliore amico e, lentamente, l'umiltà è passata in testa.
Dove ti vedi tra 5 anni?
Oh, Dio mio. Non so neanche cosa farò domani. Non posso neanche dire dove sarò tra un mese. Come posso dire dove sarò tra 5 anni? E in un certo senso, la tua domanda è una contraddizione. Perché, se l'ego fosse il mio migliore amico, avrei dato una lista completa di dove sarei in 5 anni e di cosa potrei raggiungere. Ma, dato che l'umiltà è, al momento, la mia migliore amica, non posso rispondere perché qualsiasi cosa dicessi, mentirei.
Forse voglio essere, come sono ora, per cui non so cosa avverrà il mese prossimo e poi quello successivo; un'agenda che cambia ogni giorno. Posso essere onesta con te? In un certo senso, è anche bello non sapere, non pensare. L'uomo propone, Dio dispone. Quindi prendere ogni giorno come viene, credo sia l’insegnamento più importante da seguire.