Veneto | ITALIA

I vitigni della “Terra di Mezzo”

Tornano in produzione vitigni dati per scomparsi e oggi oggetto di un percorso di studio e valorizzazione. Una sfida.

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I vitigni della “Terra di Mezzo”

Tornano in produzione vitigni dati per scomparsi e oggi oggetto di un percorso di studio e valorizzazione. Una sfida.

Quando nomino la “Terra di Mezzo” non sto parlando della regione di Arda, parte dell'universo immaginario creato dallo scrittore inglese J. R. R. Tolkien nella prima metà del 1900. Non mi riferisco nemmeno alla Mesopotamia, parola di origine greca che definisce la zona nella regione dell’Asia Anteriore compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate. 

In Veneto esiste un territorio che potremmo definire una sorta di “Mesopotamia veneta”, che – perlomeno in questo periodo storico -ne ricalca alcune delle principali caratteristiche : il Polesine.

Che poi anche “Polesine” è un termine greco-latino, che si può tradurre in "terra coltivabile emergente dalle acque correnti", che prima di essere bonificata era cosparsa di isolotti lacustri e paludosi. Si sviluppa nell’abbraccio dell’Adige a nord, mentre vede a sud il fiume più lungo d’Italia, il Po, che sfocia nelle acque del mare Adriatico con la sua grande mano a delta.

Il Polesine è il territorio più ad est dell’immensa Pianura Padana ed ha terre grasse e fertili, di origini fortemente sedimentarie, composte da terreni sabbioso-alluvionali. Il clima è molto umido, con estati calde ed afose ed inverni freddi e nebbiosi.

Questi sono alcuni dei motivi che rendono il terreno ottimo per la coltivazione di ortaggi e cereali ma difficoltoso per la vitis vinifera, che teme malattie fungine come oidio e peronospora e che è più performante su terreni aridi, scoscesi e dal ph acido.

Anche in questa zona del Veneto il vino è sempre stato parte integrante dell’alimentazione giornaliera

rientrando nello stile alimentare delle famiglie che quindi come tradizione possedevano un vigneto per produrre il loro vino. Un'abitudine mai dimenticata dagli anziani del posto, che tutt’oggi possiedono la loro vigna. Attraversando i paesi della provincia di Rovigo da est ad ovest è abbastanza comune trovare nel giardino delle case qualche ceppo vitato che rappresenta il ricordo di quella tradizione ben radicata.

I vitigni qui coltivati erano spesso autoctoni, oggi quasi dimenticati e che rispondono al nome di Turchetta, Mattarella e Basegana. Rappresentano una sorta di portabandiera del territorio che non troveremo da nessuna parte se non nelle cantine dei pochi che credono fermamente nella rinascita di quelli che possiamo definire “vitigni dimenticati”.

La Turchetta un tempo era molto diffusa soprattutto in provincia di Rovigo

Un vitigno a maturazione tardiva e di discreta vigoria anche se a volte soggetta ad acinellatura, con una buona resistenza a peronospora ed oidio visto il suo adattamento al terroir polesano. L’acino è di colore blu-nero, ha dimensioni medie, con buccia sottile e ricca di pruina.

Svela in vinificazione un'acidità elevata ed una buona concentrazione di polifenoli che si traducono in un vino dal colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, una buona freschezza con sentori erbacei, fruttati di marasca e floreali di viola, arricchita da una lieve speziatura.

È iscritta al Registro Nazionale delle Varietà della Vite dal 2007 e tutelata assieme ad altri “vitigni reliquia” da alcune associazioni, oltre ad essere stata privatamente recuperata per volontà di alcuni produttori locali.

Come succede a San Martino di Venezze in provincia di Rovigo, dove esiste una vecchia corte dei primi del ‘900, vocata inizialmente alla coltivazione frutticola e cerealicola per via dei suoi terreni alluvionali. Negli ultimi 20 anni la famiglia Reato l’ha ristrutturata in toto, realizzando anche nei suoi locali un agriturismo di 60 ettari. Qui parte il passo importante di rivalutare fra gli altri vitigni coltivati anche la Turchetta, che trova dimora nei 4,5 ettari vitati destinati alla produzione delle etichette aziendali, con il sogno ambizioso di trasformarla in uno dei vini di punta a livello regionale.

Così 4 anni fa tutto diventa più interessante, perché supervisionato da Francesco Mazzetto un giovane e talentuoso enologo - ex della toscana Due Mani dopo una esperienza importante nella cantina borgognona Bouchard Père et Fils ed attualmente mano enologica della realtà trentina Vallarom - che non solo decide di inglobare Corte Carezzabella nel portafoglio di aziende seguite in consulenza, ma essendo rodigino di nascita, ne sposa la causa e prende a cuore il progetto. Per lui è una sorta di sfida visto che le piante affondano le radici su un terreno che oltre ad essere sabbioso e sciolto, è anche basico e quindi più difficile alla viticoltura.

Usa un approccio sostenibile dove essenziale è la biodiversità in vigna e la precisione in cantina

Il gioco vale la candela vista la grande abilità agronomica che ha portato a risultati di estratto fortemente interessanti e all’uso del legno sperimentando un modo per domare il tannino tipico di quest’uva, che viene proposta anche a fianco di varietà internazionali che ammorbidiscono il sorso verticale ed addomesticano la trama tannica.

La parte migliore del nostro incontro però capita nel momento conclusivo in cui noto un bagliore nei suoi occhi, che brillano mentre gli chiedo come vede il futuro di questa varietà.

La sua risposta profetica non è per niente sibillina, mentre mi risponde con un mezzo sorriso affermando, quasi tra sé e sé: “Questo è un progetto in cui ho messo il cuore. E ne vedremo delle belle!”